Techno-mostruosità. (Ri)appropriazioni, corpi abietti e rivolte gioiose

Abstract

Techno-monstrosity. (Re)appropriations, abject bodies and joyful riots

Techno seems to represent a receptacle of subversive elements, ranging from the illegal occupation of public spaces to the use of drugs, from its menacing almost ritualistic character to its atypical aesthetics. This music genre escapes understanding and generates rejection, thus becoming “monstruos”. It does by embodying the abject since its very origin, when it developed as a reappropriation of the relationship with the industrial machine by the African-American people of Detroit. Again, it does so by violating the temporal perception of the human being, offering futurist panoramas induced by sound and images, in spaces inhabited by cyborgs, trans identities and bodies covered in latex. Above all, its monstrosity resides in the centrality of hedonism, on the one hand embodying an alienation that has to be persecuted as recreational and not productive, and on the other showing how play does not necessarily have to be separated from political struggle.

Retracing these points, I will try to argue how the monstrosity of techno music and the bodies that dance to it have been built. The aim is to demonstrate how this musical genre, due to its constant attempt to tell us the future, can represent a powerful instrument of revolt.

 

In quella che fu la faticosissima lotta per la conquista degli spazi safe e di piacere per la comunità queer, i moti di Stonewall rappresentarono di certo un evento fondamentale. Sebbene lo sgombero che avvenne in Christopher Street non rappresentasse un evento eccezionale (De Leo 2021: 155),  ciò che avvenne in quei giorni dell’estate del 1969 assunse un carattere certamente rivoluzionario. Quando infatti la polizia decise di arrestare alcune tra le persone presenti per “unnatural attire or facial alteration” le stesse iniziarono ad opporre resistenza, generando una vera e propria sommossa. Una reazione questa rivolta a reclamare un diritto all’esistenza, ma anche il diritto alla festa e al piacere. Dieci anni dopo Stonewall, esattamente il 12 luglio 1979,  lo speaker radiofonico Steve Dahl entrò al Comiskey Park di Chicago e, dinanzi ad una platea che lo acclamava inneggiando al motto “Disco Sucks!” diede fuoco ad una pila di vinili. L’evento, che passerà alla storia come Disco Demolition Night, rappresentò una delle principali manifestazioni di odio nei confronti del genere musicale disco, dei valori che esso portava con sé e delle identità che esso rappresentava. In opposizione alla musica rock, percepita come virile ed “impegnata”, la musica disco tematizzava la liberazione sessuale e l’edonismo, così generando dissenso tra coloro che intendevano partecipare a quello che Gillian Frank definisce come processo di “rimanscolinizzazione” della cultura popolare che stava avendo luogo in quegli stessi anni (Frank 2007: 276-278). Impossibile ignorare poi che non solo l’oppressione nei confronti di questo genere aveva alla base un sentimento omofobico, ma anche un velato razzismo —va considerato, infatti, che la maggioranza dellə artistə disco era nerə— (Attimonelli: 111). Fu così che la musica disco divenisse il simbolo di tutte quelle “identità altre” che per nulla al mondo avrebbero dovuto uscire allo scoperto e appropriarsi di spazi.

La stessa funzione ri-appropriativa che, a partire da Stonewall, iniziò a riguardare la reclamazione di spazi safe avverrà in modi ancora più profondi a Detroit, dove artisti quali Juan Atkins, Derrick May e Kevin Saunderson iniziarono a esplorare i primi sound techno (Attimonelli: 143). La cornice sociale della città del Michigan, che vedeva da un lato il tramonto del miracolo economico provocato dalla mobilitazione capitalista che ruotava attorno alla Ford, alla Chrysler e alla General Motors e dall’altro l’acutizzazione del graduale processo di suburbanizzazione del centro città da parte delle persone nere, favorì, sul finire degli anni Settanta, la creazione di immaginari utopici e fantascientifici (171-173). È in questo contesto socio-economico che si insediano i nuovi suoni del futuro, generati tanto dall’esperienza nella fabbrica quanto dall’esperienza dell’emarginazione razziale.

L’immaginario cyborg, rivendicato dallə Afrofuturistə in quanto intrinsecamente connesso all’esperienza della blackness, così come la riappropriazione del rapporto con la macchina (Eshun 1998: 00[-002]), sono elementi che condizionano fortemente l’estetica techno odierna. Il “farsi cyborg” va inteso nell’ accezione consegnataci da Donna Haraway, laddove esso è inteso come “organismo cibernetico, ibrido di macchina e organismo, […] creatura che appartiene tanto alla realtà sociale quanto alla finzione” (Haraway 2021: 40) e che favorisce una valida via di fuga dai dualismi caratteristici del sistema eterosessista, razzista e capitalista. Esso è, nel cosiddetto “mondo Occidentale”, un mostro e, in quanto tale, necessario a “tracciare i confini della comunità” (82).  Il corpo che balla la techno non è più solo corpo-umano, giacché è attraversato in diversi modi dalla tecnologia: i bpm, i laser, le visuals, le droghe (qualora se ne facesse ricorso), o persino il costrutto tecnologico “spirituale”, elemento che rende possibili connessioni tra la danza e la dimensione rituale o tra l’esperienza del rave e il concetto di trip (Pini 2001: 155-157). Esattamente in quanto corpo-non-umano, il corpo che balla la musica techno diviene automaticamente mostro, cioè “altro” rispetto a ciò che comunemente è accettabile e desiderabile. Nel discorso sulla commistione corpo/tecnologia, uno dei modi in cui l’essere umano si fa cyborg all’interno dell’immaginario della techno è il particolare uso che si fa della vocality, in quanto “traccia dell’umano a favore di un divenire macchinico e sintetico” (Attimonelli: 32), che rende i confini di genere decisamente fluidi se non addirittura indistinguibili. Il ricorso alle droghe è un altro punto di rilievo, specialmente nella dimensione in cui questa forma di attraversamento del corpo da parte di meccanismi tecnologici corrisponde ad uno dei mostri forse più temuti: l’essere tossico. Le droghe, che alcune persone assumono tanto per sostenere i ritmi del rave quanto per prendere parte alla festa con un approccio maggiormente “esperienziale”, rappresentano forse uno dei temi principali e più divisivi all’interno del discorso sulla techno, divenendo terreno florido per la proliferazione di metafore inerenti al mostruoso. Un’analisi particolarmente interessante in tal senso è quella di Kodwo Eshun, il quale afferma che il fatto di assumere droghe implica affermare e intensificare la vita attraverso la possibilità della morte (Eshun: 07[093]),  la quale altro non è che “il colmo dell’abiezione” (Kristeva 1981: 6).

Il corpo danzante su musica elettronica, meno regolamentato da quello che si cimenta in altre forme di ballo, appare come un corpo non disciplinato, non imbrigliabile se non dal beat, nemmeno nelle combinazioni di movenze performabili nel tentativo di inseguire quest’ultimo. Facendo riferimento al concetto di disciplinamento, non si può non chiamare in causa la teoria di Michel Foucault, le sue riflessioni sulla generazione e sul mantenimento del potere sui corpi e il suo invito al ritorno agli stessi, attraverso la particolare centralità che il filosofo francese conferisce al piacere, così rivendicando una sorta di “(contro)sapere edonico” (Petrilli 2020: 90). Col fine di trovare strategie volte ad emancipare l’essere umano dai processi di addomesticamento e indocilimento, perpetrati dal somato-potere, lo stesso Foucault suggerisce l’eventuale ricorso a pratiche che rendano i nostri corpi più sensibili al piacere, tra cui le droghe e la sessualità sadomaso. Se le prime aumentano le possibilità edoniche, la seconda non solo mette in discussione la nozione stessa di piacere, ma anche quella di potere e di cura dell’altrə (Cfr. Foucault 1998; 2014; 2015). È infatti caratteristica del BDSM spostare il focus dal piacere penetrativo/orgasmico ad una più vasta gamma di sollecitazioni, che dislocano il focus dagli organi genitali a tutt’altre parti del corpo. Non è allora forse un caso che l’estetica BDSM abbia preso ampiamente piede nella scena techno, che al contempo si erge a genere musicale privilegiato nelle feste queer e kinky. Particolare valore pare dunque assumere il potere liberatorio di questi eventi musicali, che permettono un collettivo senso di appartenenza per chi vi partecipa, la scoperta di nuove parti di sé (Petrilli: 233-234) e la possibilità di non sentirsi “l’unica anomalia” nella stanza (Wark 2023: 14), specialmente quando il corpo che si abita è un corpo trans, alieno, cyborg, mostruoso (Cfr. Preciado 2021), che incontra il suo bisogno nella dimensione dell’eserci/non esserci, dettame del ravespace, dell’eterotopia, della TAZ (Cfr. Foucault 2001; 2006; Bey 1997). Impossibile non pensare dunque a questi non luoghi come siti di resistenza, laddove il portato politico degli stessi è rappresentata dalla messa al centro della ludicità e dell’edonismo, in una generale celebrazione dell’effimero.

Se da un lato forme di resistenza basate sulla rivendicazione del divertimento e della festa hanno visto la luce all’interno delle eteropie rave, altrettante talvolta si sono manifestate per le strade delle nostre città. “La paura della violenza, le retoriche del decoro e degrado sono i dispositivi che oggi pesano sul nostro vivere le strade — a qualunque ora del giorno— e sul nostro stare nello spazio pubblico” scrive Federica Castelli (2019: 64), ricordando inoltre l’importanza di considerare la città come organismo politico e le identità che la attraversano come corpi in grado di reinventarla costantemente (64-66). Tali dispositivi, ascrivibili tanto alla categoria di umano quanto di non-umano, in quello che il costante movimento prodotto dallo “sguardo tecnocratico neoliberista” (67), che rende le persone sempre più a misura di città piuttosto che il contrario (Olcuire 2019: 85), regolamentano l’essere o meno bene accettə nel contesto urbano. In questo modo, scrive Ilenia Caleo, “il rapporto tra la città e chi la attraversa è leggibile come un rapporto tra corpi” (Caleo 2021: 71), quindi necessariamente un rapporto soggetto a varianti quali il genere, la sessualità, la razza, la classe, e condizionato quindi dalle dinamiche di potere che sussistono tra gli stessi. Lo spazio pubblico, definibile come una “confederazione di corpi […] un ecosistema, o groviglio, composto da forze attive simultaneamente e in movimento” (72), è quindi teatro tanto dei moti repressivi nei confronti di identità marginalizzate quanto di altrettanti moti contrari, di risposta o resistenza. Secondo Judith Butler, l’aggregazione di corpi attraverso la manifestazione ha già in sé il germe di una prerogativa politica: quella del “poterci essere”, dell’agire direttamente accedendo alla sfera pubblica, reclamandola (Butler 2017: 13).

Talvolta il modo in cui questo corpo collettivo viene percepito dall’esterno subisce tendenze alterizzanti volte a sminuire la causa politica portata avanti dal raduno stesso. È piuttosto frequente, infatti, che le critiche che dal “popolo” si rivolgono a chi si identifica come “non popolo” (9), attacchino direttamente le modalità di manifestazione piuttosto che i motivi della manifestazione in esame, additandola spesso come “scorretta” proprio per le pratiche messe in atto dallə partecipantə. La pride parade è l’esempio probabilmente più calzante in tal senso, divenendo la rappresentazione per antonomasia della messa in scena dell’inaccettabile, del privo di senso e dell’abietto. Tra i moti di rifiuto o risentimento nei confronti del pride, la definizione che pare più frequentemente emergere è quella che la vorrebbe una “innecessaria carnevalata”, opinione conseguente all’osservazione di atteggiamenti eccessivamente ostentativi e dalla dimensione ludica che assume la manifestazione.

La condivisione di beni —si pensi, ad esempio, alla condivisione di cibo, acqua, alcolici all’interno delle manifestazioni collettive—, le pratiche di cura sostenute dal senso di solidarietà che genera il sentirsi unitə da una causa comune e la presenza della musica sono elementi che, secondo Barbara Ehrenreich caratterizzano la manifestazione dionisiaca e sfidano le gerarchie imposte dalle classi dominanti, eliminando apparentemente le distinzioni tra individui e realizzando una sorta di “utopia basata sull’egalitarismo, la creatività e l’amore reciproco” (Ehrenreich 2006: 253). Come riporta Benjamin Shepard, l’uso della danza all’interno delle manifestazioni a sfondo politico può rappresentare una strategia volta a disorientare le forze dell’ordine, nonché un modo per farlo divertendosi. Per spiegare questo concetto, vengono riportate le parole che Emma Goldman avrebbe rivolto ad un compagno anarchico a seguito di un suo rimprovero per averla vista ballare, atteggiamento considerato da lui inadatto ad una rivoluzionaria politicamente coinvolta: “If I can’t dance, it’s not my revolution” (Shapard 2011: 25). Sebbene Shepard specifichi che l’attribuzione di queste parole alla nota anarchica russo-statunitense sia infondata, esse vengono usate per dimostrare come il ballo venga spesso considerato antitetico rispetto all’impegno politico. “Questa non è una festa, è un giorno di lotta!”, dichiarano le femministe l’8 marzo di ogni anno, nonostante su di loro pesi il giudizio dell’opinione pubblica e degli organi di potere, i quali non riescono a concepire una protesta danzante come una protesta realmente politica, quasi come se l’intenzione militante e quella ludica si collochino in posizioni antipodali, rappresentando due linee parallele che non si possono, non si devono incontrare.

In opposizione a questa retorica i Situazioni affermarono che la manifestazione giocosa, basata sul divertimento e sullo scherzo, più di ogni altra sfiderebbe alla base i principi su cui si fonda la società in cui viviamo. In particolare, secondo Sadie Plant, l’idea di una protesta “seria” non farebbe del resto altro che continuare a servire la retorica del sacrificio capitalista (27-28, Cfr. Plant 1992). Allo stesso modo, Silvia Federici argomenta la necessità di ricordare come la militanza e l’investimento politico debbano essere pratiche liberatorie che ci conducono verso la gioia, e non verso la frustrazione, causata tanto dalla sensazione del non far mai abbastanza quanto dal sovraccaricarsi del compito attivistico come il capitalismo indottrina a sovraccaricarsi di lavoro produttivo (Federici 2023: 216-221).

Pare dunque chiaro come la musica techno, le cui sonorità attraversano il rave sino a giungere alle recenti street parade (Cfr. Rashi 23 Aprile 2023; Caravelli 21 Aprile 2023) porti con sé in modo inconsapevole e chissà volutamente disinteressato, il seme della sovversione totale dello stato delle cose e dei sistemi di potere che normano i nostri corpi. Altrettanto chiaro pare perché, allora, tale forza dirompente e chissà inestinguibile, risuoni minacciosa e pertanto meritevole di essere tacciata come mostruosa, se non addirittura di essere perseguita.

Bibliografia

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Sitografia:

https://www.ilrestodelcarlino.it/bologna/cronaca/street-rave-parade-residenti-4e7d30ba (ultima consultazione: 15/05/2023)

https://www.ilrestodelcarlino.it/bologna/cronaca/street-parade-oggi-diretta-ceac53ce (ultima consultazione: 15/05/2023)

Apparato iconografico:

Immagini 1,2 3: fotogrammi da Nkiru, J., BLACK TO TECHNO, United Kingdom, USA and Italy, Iconoclast, Frieze, Gucci, 2018 https://www.frieze.com/video/jenn-nkiru-black-techno


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