Sono davvero molto stanco e ho commesso tanti errori, ma non riesco a tenere ferma la mia mente mentre ripenso a perché sono qui e al viaggio che mi ci ha portato. Mi pare davvero un tempo lunghissimo, infinito, e più guardo dietro di me più le ossa mi scricchiolano e il cuore mi fa male.
Mentre cammino, pestando la ghiaia abrasiva che ho sotto i piedi, ripenso all’ultimo anno trascorso in Svezia, tra case buffe che sembrano di marzapane, berretti di lana multicolori lavorati a maglia, tazze di caffè grandi come secchi per scaldare le budella dal vento gelido che taglia le guance direttamente dal mare del Nord: le luci di Stoccolma e quelle della Lapponia, fredde e altere, a migliaia di chilometri di distanza le une dalle altre. Le luci dell’ospedale ancora più gelide, con mia madre che stava male e io che non c’ero, ancora più lontane. Ultimo di tanti errori commessi.
Mentre il suo corpo emaciato e dolorante si agitava tra lenzuola madide di sudore e pareti verdastre pregne di odore di disinfettante, la malattia che la mangiava da dentro come un feto cannibale, io ero impegnato a farmi aprire il culo da un biondo conosciuto a Malmö in un ostello – la sua mancata conoscenza dell’inglese e la mia dello svedese di nessun intralcio al coito dopo aver assunto entrambi delle droghe sintetiche di ottima qualità. O forse stavo vagando per le strade del centro storico di Stoccolma, spaesato e incuriosito tra sampietrini crepati dalla morsa del ghiaccio ostinato, con il Museo Alfred Nobel e l’enorme Palazzo Reale con le luci viola alle finestre che ti guardano le spalle. Dalle finestre dell’edificio, in preda alle allucinazioni con il naso rosso e lucido e il fiato condensato, mi pareva di osservare delle sagome come di mobili abbandonati sotto un lenzuolo bianco da una famiglia fuggita all’improvviso. Ero entrato in un Vapiano di Gamla Stan e avevo sprecato quasi venti euro in valuta svedese per una pizza di merda condita con troppo basilico, ma avevo davvero fame e poi c’era il refill gratis della bibita.
L’anno precedente mi ero diviso tra le attrattive agli antipodi di Spagna e Francia: da una parte la luce accecante di Siviglia in estate, dall’altra la bellezza algida e disordinata di Parigi in inverno, con il sole che penetra a fatica dalla cortina di ferro delle nuvole come un rifugiato ai confini d‘Europa. Da una parte i fiocchi di neve sulla torre Eiffel e su Notre Dame, sulla Senna ghiacciata osservata dalla riva con lo stomaco riscaldato da vinaccio a poco prezzo e da un kebab pagato ancor meno, in tasca i grammi di hashish schiacciati contro le AirPods tarocche; dall’altra i granelli di una tempesta di sabbia in un’arena per la corrida in Andalusia, la nuca madida di sudore che scotta sotto il sole cocente nonostante la bandana da cabrón e la nostalgia di casa che rimpasta le interiora. Parlo pochissimo spagnolo e ancor meno francese, ma ero riuscito quasi sempre a rimediare un posto in cui dormire gratis grazie a tanta faccia tosta e a un pizzico di fortuna: avevo scopato Brenda, Carmen, Inés, Jean-Paul e mi ero fatto scopare da Reneé, Lucas e da una tipa corpulenta di Barcellona con i capelli lunghi fino al culo e un tatuaggio dedicato a David Bowie che mi premeva la mano sulla bocca quando stava sopra perché diceva di odiare gli uomini.
Mia madre iniziava a star male. Accusava dolori al petto, giramenti di testa e acufeni, vertigini. Lo sapevo perché Riccardo, mio fratello, ancora tentava di contattarmi sul mio vecchio numero di cellulare. Non rispondevo mai, nemmeno agli auguri di compleanno, di Natale e di Pasqua, ma lui continuava a tentare e a volte mi capitava di cogliere qualche parola qua e là prima di svuotare la cronologia dei messaggi con uno swipe distratto. A volte mi veniva voglia di scrivere qualcosa ma pensavo sempre che non servisse proprio a nulla e quindi perché sprecare credito.
L’anno prima ancora mi ero innamorato della Germania nella figura di Nilde, una sassone dai capelli ramati che viveva in un monolocale a Berlino e aveva più di una dozzina di piercing sul corpo. Mi piaceva che molti di loro non fossero visibili, conservavo la loro collocazione precisa nella memoria come un segreto prezioso quanto i suoni che le uscivano di bocca quando li tiravo delicatamente coi denti, quando li leccavo con entusiasmo e a volte con una punta di rammarico per non riuscire a farla venire più velocemente.
Avevamo convissuto per un paio di mesi, poi mi ero iniziato a rompere il cazzo. Nilde studiava all’università e i nostri sguardi e parole si incontravano raramente dopo le prime settimane trascorse insieme, anche se dormivamo nello stesso letto, schiena contro schiena a proteggerci a vicenda. A volte la sentivo piangere sommessamente, le spalle che andavano su e giù nel buio della camera, senza chiedermi se fosse per colpa di un incubo o della vita reale che divideva con me. Quei due mesi a Berlino nell’appartamento in Dingolfinger Straße – con la carta da parati antiquata e strappata, la muffa nerastra negli angoli del bagno e l’odore di caffè rovesciato che impregna i muri – sono stati il periodo più lungo che ho trascorso nello stesso posto negli ultimi cinque anni.
Dopo la capitale, avevo affrontato le pareti specchiate dei grattacieli di Francoforte, gli abeti immensi della Foresta Nera, la bellezza quieta e maestosa di Heidelberg e di Magonza. Ero innamorato di quella terra complicata e ambigua, dove erano nati tutti i filosofi, scrittori e pensatori che avevo studiato con zelo distratto alle superiori. Portavo gli Inni alla notte di Novalis nella tasca posteriore dei pantaloni, ne leggevo uno ogni volta che non riuscivo a prender sonno in uno dei tanti ostelli in cui dormivo. Quel volume sudicio pieno di orecchie agli angoli ora l’ho smarrito, dimenticato come un comune calzino spaiato in uno dei tanti spostamenti che mi hanno coinvolto negli ultimi tempi.
Quell’anno mia madre tentava di chiamarmi almeno ogni mese. L’anno prima, quello trascorso in giro per l’Est Europa, ci provava ogni settimana e quello prima ancora, il mio primo via da casa, ci provava ogni giorno. Non ha mai lasciato un messaggio in segreteria, solo lunghissimi squilli a vuoto che sembravano prima rimproverarmi timidamente e poi urlarmi addosso.
Il mio primo anno in viaggio da solo fu incredibile: lo trascorsi viaggiando in lungo e in largo per l’Italia. Avevo già deciso di esplorare l’Europa, ma volevo prima conoscere per bene il Paese in cui ero nato e cresciuto: iniziai da Venezia, che mi aveva sempre affascinato e non avevo mai visto, per poi passare a Padova con la basilica di Sant’Antonio che era tutto fuorché impressionante, Verona e la statua di Giulietta col nudo seno dorato, lo smog grigiastro e i tram rumorosi di Milano, il Lungarno di Firenze che puzzava di alghe marcescenti, Roma città eterna e eterno traffico, Napoli e la pastiera – o meglio, la pastiera e Napoli, ne mangiai talmente tanta una volta che ne vomitai un po’ in un vicolo mentre i clacson violenti e le sgommate dei motorini minacciavano di farmi colare il cervello fuori dai timpani. E poi il sole spaccapietre del porto di Bari, il mancato ponte di Messina di cui ovviamente non me ne fregava nulla perché Messina era tanto bella comunque, i templi greci di Agrigento avvolti dalla luce abbacinante del sole che mi dava la sensazione di essere un extraterrestre. Nel mezzo: cibo, tanto ed economico, e sesso, poco ma mediamente soddisfacente. Non mi piaceva dire porcate in italiano, mi faceva sentire in imbarazzo, quindi non riuscivo ad essere brillante e spigliato come avrei voluto. Il telefono prendeva benissimo, ma ero io a non voler rispondere alle chiamate di mia madre, a cui si aggiungevano messaggi brevi pieni di puntini di sospensione e cose non dette che invocavano il mio ritorno.
Poi presi una cuccetta su una nave merdosissima e andai a Malta, incontrai una ragazza inglese con i capelli scuri e il viso equino, facemmo l’amore sulla spiaggia, lei si addormentò subito dopo l’orgasmo. Le rubai il portafoglio, uno dei primi eclatanti errori oltre al non aver risposto a tutte quelle chiamate, ma almeno le lasciai i documenti. Con quelle duecento sterline fresche di cambio che vi trovai pagai un biglietto per la Grecia e da lì iniziò il mio viaggio per l’Europa dell’Est. Le telefonate di mamma si diradarono, divennero una a settimana. Ormai evitava i messaggi, forse perché il loro visibile accumularsi uno dopo l’altro senza risposta le dava sui nervi o la rendeva triste. Non lo saprò mai, non ho avuto tempo di chiederglielo.
Nessun adulto può capire cosa sia l’infelicità finché non guarda negli occhi un reduce di guerra: mi capitò a Sarajevo. Fu un viaggio duro, tante cose da imparare e poche da visitare, tutto era stato distrutto nelle guerre jugoslave. Camminavo per le strade come un uomo non dovrebbe mai fare, con la camminata spavalda di chi pensa che tutto gli appartenga perché è giovane e di aspetto piacevole, e mi guadagnavo parecchie occhiatacce. Nella capitale bosniaca mi capitò di dormire per strada, per fortuna era estate e il freddo notturno non riusciva a insinuarsi fin nelle ossa; mi accoccolavo negli angoli dei vicoli come un cane acquattato fuori da un ristorante in attesa degli avanzi dell’oste, cingendomi la schiena con le braccia, un maglione infeltrito come lurido cuscino.
Un altro paio di notti me le feci a casa di un ragazzo dalla pelle olivastra di cui ho scordato il nome, ma ricordo benissimo il suo cazzo circonciso e il sorriso sulle sue labbra – timido, quasi di scuse – quando aveva capito che ero in cerca di un posto per la notte. In quei due giorni da lui mi riempii la pancia di moltissimi ćevapčići roventi, ingoiando birra balcanica ghiacciata di giorno e sperma tiepido la notte.
Dopo la Bosnia, la Serbia: ennesimo errore, attaccai briga con due tizi nerboruti in un club di Belgrado perché avevo bevuto troppo e mi sentivo solo da tanto. Mi procurai un occhio nero, mi spaccarono uno zigomo e un labbro a pugni e lo sa il Cristo cosa sarebbe successo se il buttafuori non fosse intervenuto. Mi ritrovai sul retro del locale a sputare sangue e saliva per terra cercando di capire se avessi perso dei denti nel riflesso di una pozzanghera limacciosa illuminata dai neon: della musica techno in lingua sconosciuta rimbombava lugubre dietro di me ma almeno mi sentivo meno solo, il peso e il calore dei pugni ancora stampati in faccia come baci su una cartolina. Mi calai un acido e passai il resto della notte a camminare per la strada, riuscendo a malapena a distinguere la luce dell’alba da quella delle insegne di kebabbari e locali notturni.
Un paio di giorni dopo arrivai in pullman a Dubrovnik, in Croazia, e conobbi Alina dagli occhi celesti un po’ bovini e i denti forti: le offrii un pranzo alle pendici della fortezza della città, la splendida, inespugnabile fortezza arroccata sugli scogli, e la sera me la scopai in piedi nel suo minuscolo appartamento. Fu l’ennesimo errore, perché non distinguevo più le persone che usavo per avere un letto con delle lenzuola pulite e una doccia con acqua calda da quelle che mi piacevano davvero e con cui sarei potuto andare d’accordo seriamente. L’importante era sopravvivere.
Continuavo a ignorare gli squilli imperiosi e affranti di mia madre.
Mi risveglio come da un sogno e mi ritrovo fermo nel bel mezzo della strada. Per fortuna qua non passa mai nessuno. Alzo lo sguardo, il celeste intenso sopra di me mi ferisce gli occhi: non ricordavo che il cielo qui avesse una sfumatura di tale intensità. I miei ricordi infantili evidentemente stanno sbiadendo. Riprendo a camminare mordendomi il pollice, imprimendo la forma degli incisivi nella carne tenera del polpastrello, un vizio che ho dall’asilo. Quello, a differenza della memoria, non sta svanendo affatto.
Ripenso al ricordo più recente, la telefonata di Riccardo: ero a Copenaghen e stavo mangiando un gelato in un bar nonostante la temperatura esterna appena sopra lo zero, quando ho visto il nome sul display del cellulare. Ovviamente l’ho ignorato e come sempre ha smesso di squillare, ma un secondo dopo è arrivato un messaggio. C’era scritto solamente “rispondi” con un punto alla fine della frase. È stata quella punteggiatura imperiosa a convincermi a rispondere alla seconda chiamata.
– Pronto? –
– Ciao, Edo. –
– Ciao, Ricki. –
– La mamma è morta. –
E poi il vuoto. Ricordo solo che il gelato che stavo mangiando era all’amarena, perché ho ancora la sensazione aspra e dolce della ciliegia sulla punta della lingua.
Sbatto le palpebre e mi ritrovo a fissare le punte delle scarpe, le stesse scarpe blu che indossavo nel bar quando ho chiuso la chiamata e gettato un paio di banconote spiegazzate sul tavolo assieme al telefono, dove è rimasto da allora. Gli ultimi giorni sono stati solo treni e stazioni, stazioni e treni – e un paio di pasticche di Xanax rubate a una matricola universitaria ingoiate con della Peroni calda nel bagno di un treno regionale lurido all’altezza del Brennero – per giungere fino a qui. E ora sono arrivato davvero.
Alzo lo sguardo e vedo la porta di casa, che è della stessa sfumatura di blu delle mie scarpe da trekking. Sospiro. Erano più di cinque anni che non la vedevo; al lucido batacchio di ottone è legato un fiocco nero che non mi pare abbastanza luttuoso. Dove cazzo sono i fiori? Le piacevano molto, ricordo che ripeteva sempre che una casa con dei fiori freschi è una casa a cui le persone che ci vivono dentro vogliono bene. Io le volevo bene, e il mio errore più grande è stato non trattarla come una casa con un mazzo di fiori appena colti onnipresente.
Rallento il passo mentre mi avvicino, sento la ghiaia scricchiolare con un lamento sotto i miei passi pesanti, ma forse il gemito veniva da me. Cosa avrebbe detto lei della droga e delle ragazze e dei ragazzi e dei treni schifosi e delle pisciate in piedi sugli scogli e delle mutande riusate tre volte in una settimana e dei cazzotti i graffi i lividi e dei preservativi a buon mercato che basta guardarli perché si buchino? Forse non le sarebbe fregato un cazzo, forse sarebbe bastato che avessi risposto, che avessi detto “ciao mamma come stai mi manchi sono disperato la vita mi fa vomitare voglio tornare a casa ma non so come non riesco a fermarmi”. Forse sarebbe bastato che avessi trascinato il pollice sulla cornetta verde che trema in un angolo dello schermo, anche senza dire niente. Anche solo per sentire la sua voce.
Continuo a camminare e ora la polvere che si alza dalla strada si mischia alle gocce impastate di sudore e lacrime che mi cadono dalla faccia.
“Ti si sente arrivare fin dalla strada con quei piedoni!“ diceva sempre lei, toccandomi goffamente la punta del piede con la sua.
Ora ormai, come me, non sente più niente.
Amy Appiani (she/they) è una delle fondatrici dell’Altrosessuale, per cui è felicemente soddisfatta di fare talk e dirette dove può liberare il suo essere logorroica. È un’insegnante che si barcamena tra scuole elementari e medie ed è laureata in Lingue e letterature, anche se ora sta frequentando la magistrale di Linguistica. Il suo unico credo è il transfemminismo anticapitalista – e il k-pop, e gioisce quando può unire i due argomenti.
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