Quando lui non mi guarda

“You’re so handsome when I’m all over your mouth.”
                           Ethel Cain, Strangers

  

Quando mi spalanca le cosce per divorarmi dall’inguine, mi fratturo come un frutto.

Un suono secco e improvviso che mi lascia senza parole. Il suo respiro, greve e tormentato, mi ricorda un cervo sulla superstrada, le zampe spezzate da un’auto che si è fermata troppo tardi. Si ferma a guardarmi, continua a sfiorarmi il ginocchio con i capelli pregni di sudore, mi fa il solletico. E mi piace.

La luce del sole filtra dalla persiana in camera mia. Lui sta dormendo profondamente, un sonno che sembra aver conquistato con fatica e dedizione. Mi siedo al suo fianco e, la testa contro il muro fresco, guardo il suo petto crescere e crollare. Crescere e crollare. Crescere e crollare. Un respiro così prevedibile e meccanico che mi infonde calma  Niente sbuffi imprevisti, solo una serie di sospiri bianchi e soffici come cotone. Uno spicchio di luce illumina le cicatrici che ha sul petto e il pelo cresciuto intorno.

A colazione vedo che legge le poesie di Wisława Szymborska, il libriccino beige che gli ho regalato al compleanno. Mi guarda, poi me lo passa. Sta leggendo Accanto a un bicchiere di vino, una delle mie preferite. Mi sporgo per baciarlo e sa di burro e marmellata di fragole.

Con uno sguardo mi ha reso più bella,
e io questa bellezza l’ho fatta mia.
Felice, ho inghiottito una stella.

Usciamo insieme a prendere l’autobus e mi cinge la vita con un braccio mentre con l’altra mano sceglie la musica da ascoltare insieme. Parte These Days di Nico, dopo è il turno di I’ll Haunt You dei Tennis. Ascoltiamo tutto Preacher’s Daughter di Ethel Cain fino alla prima fermata del campus, poi mi dà un bacio sulla fronte e lo vedo sparire, mescolarsi nella folla diretta verso il dipartimento di Scienze Politiche.

 Ho lasciato che mi immaginasse
a somiglianza del mio riflesso
nei suoi occhi. Io ballo, io ballo
nel battito di ali improvvise. 

Mi invita a casa sua nel pomeriggio per una maratona di horror. Guardiamo Raw – Una cruda verità di Julia Ducournau, sempre di Ducournau vediamo Titane, il mio preferito. Mentre preparo da mangiare, suona il campanello. Ha invitato alcuni amici, che non conosco. Me li presenta. Si guardano come fanno i lupi dello sesso branco quando c’è un capriolo in mezzo. La maratona procede. Possession di Andrzej Żuławski, odiato da lui e dai suoi amici, per me una visione quasi catartica. Isabelle Adjani è fenomenale e la scena nel sottopassaggio della metropolitana è indimenticabile. Durante uno dei Venerdì 13 mi annoio e inizio a vagare con lo sguardo.

Fisso la sua barba, sprazzi scuri sul viso lucido e olivastro. I suoi occhi, verdi e illuminati dal bianco della maschera da hockey di Jason Voorhees. La fronte corrugata e il collo rilassato. Lo agguanto per il braccio e lui mi sfiora il polso, mi disegna cerchi con le dita.

Guardiamo Audition di Takashi Miike ma loro, come da copione, odiano il personaggio di Asami. I suoi amici hanno espressioni curiose, sembrano turbati e insieme eccitati da ciò che sta succedendo sullo schermo. Lui è stranamente teso, percepisco la sua rigidità come un blocco di cemento sul divano troppo morbido. È inopportuno. Mi traccia linee sulle braccia e, aumentando la pressione, ho la pelle d’oca. Sono solchi nati da un’aratura privata e mi perdo tra i miei nervi.

Il tavolo è tavolo, il vino è vino
nel bicchiere che è un bicchiere
e sta lì dritto sul tavolo.
Io invece sono immaginaria,
incredibilmente immaginaria,
immaginaria fino al midollo.

Al ritorno dal campus ascoltiamo Redcar les adorables étoiles (prologue) di Christine and the Queens e lui nel suo rigido distacco mi promette grandi cose. So già che lo sto perdendo.

Ricordo ancora la sua prima iniezione di testosterone. Era tranquillo e sorrideva come un bimbo il giorno di Natale. Voleva che fossi lì con lui, in camera sua. Gli scattai un paio di foto mentre avvicinava la siringa alla coscia, la sua euforia incontenibile. Quelle foto gliele portai il mese successivo, una sorpresa per lui. E una sorpresa per me fu incontrare la madre all’improvviso. Entrò in camera, mi diede un bicchiere d’acqua. Sorrise sfiorandomi il braccio. Grazie.

Gli parlo di tutto ciò che vuole:
delle formiche morenti d’amore
sotto la costellazione del soffione.
Gli giuro che una rosa bianca,
se viene spruzzata di vino, canta.

 Lo conosco alla presentazione di un libro. Arrivo in ritardo e cerco di non attirare l’attenzione delle persone presenti entrando silenziosamente per poi sedermi sulla prima sedia libera che trovo. Lui sposta la sua giacca e mi sorride. La presentazione è tremenda, noiosa. Usciamo a prendere qualcosa da bere e, come a quindici anni, ho mal di pancia per il semplice fatto di averlo vicino a me. Le fossette agli angoli delle labbra ospitano una storia a me ancora sconosciuta. Mi lascia alla fermata dell’autobus e mi chiede il numero, poi si infila nel parchetto e sparisce tra le siepi.

Sull’autobus verso casa ascolto Cheap Queen di King Princess e sento qualcosa crescermi dentro.

Mi metto a ridere, inclino il capo
con prudenza, come per controllare
un’invenzione. E ballo, ballo
nella pelle stupita, nell’abbraccio
che mi crea.

 I giorni passano e non faccio che perderlo. Non mi sembra più lo stesso. Semina frammenti di sé per strada. Nelle vie. Sui tavoli. Nei bicchieri. Tra una parola e l’altra nei libri. Nei miei film preferiti. Nel silenzio delle lunghe scene di Jeanne Dielman, 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles di Chantal Akerman. Torna a casa e non lo riconosco. Non mi tocca né si lascia toccare. Siamo sempre statə una sciarada, sin dall’inizio. Sono la donna che visse due volte, come quella di Hitchcock. Lui è il titolo originale, una vertigine.

Eva dalla costola, Venere dall’onda,
Minerva dalla testa di Giove
erano più reali.

Quando affonda, mi lascio schiumare contro di lui. Non mi sono mai sentita così bene nella mia invulnerabilità e lo ringrazio per questo con voce affannata. Lui mi stringe il petto e lo assapora con denti accecati dall’avidità. I fianchi si muovono impazziti, come se volesse scavare per rifugiarsi al mio interno. Le sue braccia sono sudate, salate. Mi stringe e mi lascia godere dell’incertezza di essere. Di sembrare. Di temere di sembrare. Come cera calda ci sciogliamo l’una nell’altro e per una volta, forse per la prima volta, mi permetto di accogliere gli strati che soltanto lui ha avuto cura di considerare.

Quando lui non mi guarda,
cerco la mia immagine
sul muro. E vedo solo
un chiodo, senza il quadro.

 


Simone Librandi (@simlib – he/she/they) studia Lingue; ama leggere, scrivere, il cinema, il colore blu, la traduzione e Wuthering Heights di Kate Bush. Tiene diari su diari in cui scribacchia e disegna. Manifesta il proprio amore attraverso lettere e playlist su Spotify. Ha scritto Lingua franca, una storia queer sull’intersezione tra amore e lingua, che è stata pubblicata sul numero 0 di Tiresiə Magazine.



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