Ho cominciato a fare sogni sulle sirene da quando sono arrivato qui.
Affittare la casa in riva al mare mi era sembrata la cosa più pratica da fare, almeno così avevo detto a me stesso confermando il pagamento sul sito web. Avevo preso lo stretto indispensabile, la sacca di tela con cinque cambi puliti, un taccuino nuovo su cui appuntare le idee per la novella, una nostra foto, risalente ai tempi della pace, per capire cosa farmene e digerire quell’impasto di rabbia e malinconia che provavo nel pensarti. La spiaggia è un luogo isolato, non sabbia ma ciottoli neri in cui i piedi affondano se si passeggia lungo il bagnasciuga, l’acqua è piatta e gelida, ogni tanto in lontananza un peschereccio solca l’orizzonte e mi fa compagnia, mi ricorda che c’è vita oltre il confine invisibile. Mi sveglio alle sei, mi metto sul portico a bere caffelatte, a raccogliere idee, fisso il mare per farmele venire. Alle sette una ragazza corre col suo cane.
Prima erano luoghi vaghi, scenari sommersi, coralli rossi, anemoni che si muovono nella corrente come dita di una mano che ti invita a raggiungerla, poi presenze sempre più incalzanti, un posto popolato da statue, veli turchini, incrostazioni di alghe e gioielli su colonne corinzie dimenticate, corpi di pietra coperti di licheni, una corte abbandonata, un abisso dove la sabbia lascia il posto a marmi violacei e figure fluttuanti, canzoni mai ascoltate, melodie che per me risuonano come ricordi sepolti.
Sagome di donne, che scendono spinte da una forza ancestrale e si muovono dominando pienamente l’elemento dell’acqua, cresciute lì dentro, immerse nello spazio amniotico dei baratri inesplorati, quel nuoto controcorrente solleva loro la veste di veli e vedo le gambe, quelle che sembrano essere gambe e si rivelano essere code di pesci, le squame madreperlacee azzurre maculate scarlatte, come quelle carpe che avevamo visto insieme. Era quel posto nel Kyushu, tu avevi voluto prendere un traghetto da Hiroshima solo per vedere le carpe e trascorrere alcuni giorni del nostro viaggio lì, ricordo la pace di quel luogo, il battello sussultante e la prua della nave che squarciava il silenzio del mare aperto, noi due durante quel viaggio, tu che cercavi le carpe lungo il canale, come balene durante una traversata, io guardavo te e cercavo di essere complice nel tuo entusiasmo.
Le sirene dei miei sogni anticipano i pensieri: forse se io e te fossimo stati due tritoni avremmo comunicato con gli ultrasuoni, come fanno i beluga, ci saremmo capiti con uno sguardo e un fluttuare di pinne, saremmo entrati nelle cavità subacquee per cercare i polpi e le murene e avresti intuito dalle profondità delle grotte se sarei stato in grado di muovermi lì dentro senza il tuo aiuto o se risalire insieme. Fossimo stati tritoni mi chiedo come avremmo scopato, se come i pesci, espellendo uova o sperma, senza contatto, o strofinandoci le code avvinghiati come bisce di fiume, o come i delfini che si sdraiano uno sull’altro, vorticando sospesi in acqua. Se dovessi creare un bestiario delle creature mitologiche degli oceani sceglierei il sesso delle bisce per le sirene, mi sembra la cosa più simile all’abbracciarsi nudi, l’incisione di Gustave Doré di Paolo e Francesca che resistono al vento infernale sospesi a mezz’aria. Così avremmo fatto fossimo stati tritoni noi due, ci saremmo stretti e avremmo avvolto le code e resistito alla corrente.
Quando mi svegliavo da quei sogni con le sirene lo facevo sempre con la sensazione di aver perso la nozione della differenza tra sognare e vivere, come se il risveglio mi strappasse a un luogo che conoscevo e a cui stavo tornando, che vivere qui, in questa casa in riva al mare, fosse attendere di ritornare a dormire e continuare a scandagliare i fondali. Ho smesso di scrivere la novella e ho cominciato questo quaderno dei sogni di mare, notte dopo notte ricostruisco una storia che sento appartenermi in maniera inspiegabile, notte dopo notte imparo il linguaggio delle sirene, mi si avvicinano e mi nuotano tutt’intorno, mi chiamano sorella, intuisco di essere la più piccola tra di loro, capisco che c’è una legge che bisogna rispettare prima di affiorare sul pelo dell’acqua, di avvicinarsi al mondo dei mortali, e io devo aspettare. I giorni di veglia si fanno sempre più brevi per me, in uno di questi vedo che mi hai scritto una lunga mail, in cui mi chiedi dove sono finito e perché non rispondo più e che ti dispiace per il male che ci siamo fatti, e che amarsi vuol dire anche accettare di cambiare i propri sentieri, e che dovunque io sia tu speri che io stia bene e che io sia felice, archivio quella mail, prendo la nostra foto dalla sacca che ho portato con me e la appoggio sul davanzale del camino in soggiorno, siamo noi due al luna-park dove mi avevi portato per il compleanno, siamo felici e ci diamo uno di quei baci ridenti di quando ci si mette in posa per immortalarsi e simulare un bacio d’amore che durante quello scatto pensavamo avrebbe avuto un potere secolare, penso che quella foto incorniciata starà meglio lì in quella casa in affitto e che chi arriverà qui dopo di me la troverà sul davanzale e non avrà una storia su di noi, avrà solo un’immagine, e quell’immagine sarà sufficiente a darci un secondo inizio, diverso dal nostro, magari una storia dove non abbiamo rovinato anche i ricordi belli di quella foto, dove non siamo disillusi, dove c’è ancora del bene, e così spengo la luce e mi rimetto a dormire.
Durante la notte sotto l’acqua trascorrono gli anni, divento una sirena quindicenne, posso finalmente emergere in superficie; così una notte assisto a un naufragio, un enorme galeone sprofonda in mare avvolto dalle fiamme sotto un cielo in tempesta trafitto dai fulmini. Tra i rottami di quella nave che annega vedo un giovane in camice bianco, il viso pallido, i lineamenti eterei come le nostre sculture inabissate, cola giù a picco, un burattino senza fili, lo afferro sapendolo destinato a morte certa, lo trascino a riva, gli sposto i capelli dal viso e in quel momento mi voto anima e corpo a chiunque lui sia. Mi intravede prima di tuffarmi di nuovo in acqua e sparire.
Vado dalla megera del mare, le dono la lingua in cambio delle gambe per rivederlo, mi dice che se non riuscirò a ottenere il suo amore la mia morte di creatura del mare sarà diventare spuma. Lui non riconosce in me la salvatrice del naufragio, prova tenerezza e mi tiene al suo fianco, ma ama lei, quella che l’ha salvato, e non posso essere io, muta come sono, una rondine caduta durante una migrazione. Si innamora di una fanciulla che crede essere artefice della sua salvezza dall’annegamento, e mentre mi addoloro in silenzio le mie sorelle del mare mi recano un pugnale.
Uccidilo mentre dorme insieme a lei, così ritornerai agli abissi con noi e sarai salva.
Apro la tenda, lo scruto dormire, lei gli tiene una mano sul petto nudo, lui tiene il palmo sulla mano di lei, un atto semplice di tenerezza, significa: anche se dormo veglio su di te. Cerco di ricordarmi l’ultima volta che io ho avuto quella sensazione dormendo con te, era forse prima dei mesi della pandemia, tra sputi e guerre ci eravamo logorati e il vuoto di senso che provavo mi convinceva che meritassi di stare bene, che entrambi meritassimo qualcuno più adatto a noi, che capisse il mio linguaggio e il tuo. No, è stato dopo, quando la perdita era già inevitabile ed eravamo inesperti nel sapere cosa fare per continuare a rimanere legati, quando l’unica cosa da fare sarebbe stata lasciare la presa, permettere alla corrente di spingere me a valle e trattenere te a monte, invece di precipitare insieme. È stato in quei giorni però, giorni di dolore e tenerezza. Eri rimasto a casa mentre io ero uscito quella sera, sapevi dove stavo andando e non mi facevi domande e il fatto che non mi facessi domande era già motivo di dolore, avrei forse voluto mi dicessi di restare, forse avrei agito diversamente; oppure no, sarebbe andato comunque tutto in malora. Ero tornato la notte, dopo essere stato con lui, tu eri in salotto ad aspettarmi sul divano, leggevi la copia di Dune che ti avevo regalato, hai alzato lo sguardo dal libro, non hai chiesto niente ma mi hai sorriso, ti sei alzato e mi hai preso la mano. Nella penombra delle due del mattino ti ho spogliato e tu hai spogliato me, e mentre ti penetravo e raggiungevo l’orgasmo e tu mi eiaculavi sul ventre non hai mai distolto lo sguardo dal mio, ci siamo sussurrati parole e promesse che quella sera sono state eterne, e in quel momento avevano senso, e ci sarà sempre una notte di agosto afosa in cui quelle promesse avranno valore e io e te ci teniamo la mano come fa il ragazzo che ho salvato dall’acqua quand’ero sirena con la sua sposa.
Mi sveglio, scrivo le ultime frasi sul quaderno dei sogni di mare, non devo aggiungere altro, le mie memorie coincidono, vite trascorse, vite presenti, e mentre cammino sulla breccia nel tepore delle sette del mattino mi spoglio, e mi immergo nudo nell’acqua, aspettando di dissiparmi in schiuma.
Sorelle, eccomi.
Matteo Cardillo (IG: @matteo.nel.deserto) è docente di inglese per le scuole secondarie e dal 2022 è dottore di ricerca in Studi Queer e Letteratura Inglese presso l’Università di Bologna. Si è occupato di folklore, letteratura horror, cinema queer e critica transfemminista. Nel 2020 ha pubblicato il suo primo romanzo Visioni di Isabel Rosberg per Formamentis. Attualmente scrive racconti e pubblica recensioni sul blog Critica Letteraria. I suoi interessi letterari si orientano principalmente verso il realismo magico, l’horror e il grottesco. Vive a Bologna.
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