Piaghe da de-cupio

NdA
Se andrete nella Cappella San Severo vi convincerete che non sia il Cristo Velato la principale attrattiva, ma un’altra statua, Il Disinganno. Quello che appare come un corpo che esce da una rete è in realtà un corpo che esce dallo spazio; la rete sembra reificare le invisibili molecole in cui il corpo è immerso, e c’è da chiedersi se sia veramente l’individuo a squarciare la gabbia o la gabbia stessa, inglobata nelle viscere, a uscire dai segni dell’attrito del soggetto con il fuori-di-sé. L’auspicio dello scultore è che questo disinganno dissolva le catene delle tenebre e possa dissipare il buio; ma il dis-inganno presuppone un inganno originario, e quale sia l’inganno vero, se l’avere un corpo o non averlo, è una questione irrisolta.

 

Vaga per i giorni sogno bianco una falena. È stanca, le ali si uniscono alla polvere e restano ai bordi della finestrina alta, gratata, sbarrata. Unica luce è quella immaginata, presupposta dalla stessa esistenza della luce. La stanza è ferma, le cose sono ferme, le ossa pure.
Sul tavolo, in una tazza stampata di calcare e cumuli ectoplasmatici, un vecchio tè. Si è rappreso senza rapprendere con sé le vecchie cose. Il calcare corrode più del tempo, lo spazio è un calco che non si muove. “Uscire fuori di qui”: ecco la mia traiettoria. Si incastra nei cumuli di oggetti, mentre lancio il mio occhio sull’accumulo di traiettorie non traiettate sul comodino. Falena sulla mia mano; è la barriera lieve tra il nulla e il me. Il vicino della casa di fuori lancia un porcoddio. Chissà se sa che tutte le sue bestemmie mi arrivano dalla grata nella stanza, corpo spalmato sul letto, mi si adagiano sopra, entrano nelle piaghe. Ho un porcoddio del mio vicino nella piaga; che ci resti.

Ho iniziato a piagarmi per caso; si dice che siamo nel secolo della pressione, prementeci da tutte le parti. Mi sono piagato per caso la prima volta che qualcosa ha esercitato pressione su di me? Improbabile. Ogni essere allora sarebbe una piaga, invece vedo – o meglio sento, perché ora non mi alzo, forse lo vedo in quello che ricordo della strada e della città – gli esseri andare da una parte all’altra senza particolari disfacimenti. Sento molti passi affaticati, quello sì. Forse ciò che non diventa una piaga è comunque automaticamente una piega; gli esseri non piagati vanno per il mondo piegati: in ogni caso dal Gate non si scappa. Tanto vale che rimanga qui. Ora in questo momento dovrebbe succedere qualcosa – un telefono? un citofono? io che mi ricordo di qualcosa per cui “vale la pena”? – che mi farà alzare e lentamente cambiare stato. Ma questa roba dell’avvicendarsi dell’Altro, del fuori che entra a svegliarti, di un Intervento o di un vento del cambiamento è una affermazione neopositivista consolatoria e veramente stupida. L’Altro non esiste: solo il mangiucchiamento, il corrodersi, il dolore che scaturisce da questa consapevolezza esistono. La materia si fa disfare. Da cosa? Da chi? Io onestamente non pensavo mai di finire così; ma poi così come. “Così” – e voi come state? Di nuovo, dovrei aspettarmi un intervento da fuori per far succedere qualcosa. Ma quando mai bro, bisogna fare pace col fatto che non succede niente. All’inizio incolpavo la città. Mo dovrei incolpare la provincia? L’universo? Sblablubli. Veramente, sblablubli. Cazzate. Se crepo scrivetemi sopra “Ha molto amato, perciò si è molto piagato” città di Apnoli annus domini questo. Che ti aspetti da una città che prende il suo nome dall’Apnea? Io almeno stando a letto respiro. Guarda che bei respiri bucherellati e come esce bene l’aria dai protervi sgranati tessuti. O, eritema. Non temo più niente, e tu non sei più un tema nella mia esistenza. Non mi vuoi? E non mi volere! Mi voglio da solo. Posso volermi benissimo da solo, mi sto facendo spuntare le ossa fuori apposta. Le mie ossa a vista discioglieranno i vincoli della pelle, dissolveranno la lunga notte del non amore e della non appartenenza, e io non sarò condannato a questa universale solitudine. Mi sono fuoriuscite  le scapole come un’incudine e mi sto sollevando dal letto. Slargati, piaga! Suppura! Da qualche parte dentro me si muove un ricordo: “affitto”. Lo sposto di lato, è superfluo. Avoglia quanto succede in due settimane. Arriveranno i padroni di casa tra due settimane. Sai quanto altro mi piago in due settimane?

Ho sognato che mi chiamavi. Mi vergognavo a farti entrare in casa così, è strano perché nei giorni che esistono dall’altro lato del sogno ho perso la vergogna di qualsiasi cosa. Mi vestivo veloce e scendevo a vederti; rimanevo incastrato nella bolgia di sotto, allora mi facevo portare dalla folla fino alla piazza. Sapevo che saresti venuta vestita di bianco. Invece sei venuta vestita di un altro colore. Il dettaglio mi ha spiazzato, e mi ha spiazzato l’essere spiazzato; nei giorni che esistono dall’altro lato del corpo niente mi fa più sobbalzare. Andavamo a mangiare fuori, ma eravamo di nuovo senza soldi. Mi facevi Non fa niente, dividiamo una polpetta del bancarello. Ti chiedevo Hai ricominciato a mangiare la carne. Una volta al mese quando ho pochi soldi per comprare la verdura. Poi mi dicevi Certo riproviamoci, ho coltivato la nobile arte della pazienza adesso. Ah, e dove è la tua paura? È finita, sono stanca di avere paura del corpo – non ricordo se lo dicevi o lo aggiungevo io nel sogno questo – proviamo ad avere l’amore! E ce ne andavamo verso il mare, sotto le impalcature e le pizze esposte e marcite, il cielo grave di palazzi, piegato io e piegata tu. Ho aperto gli occhi e me li sono richiusi con tutta la forza che avevo. Speravo che il sogno continuasse. Invece ho sognato una casa che non conosco, insomma la solita spazzatura onirica, e poi che entravano a chiedermi in anticipo l’affitto e mi trovavano nella merda di casa mia, con le robe accumulate, il corpo sciolto nel lenzuolo, la decomposizione e senza una lira perché mi hanno licenziato. Non c’è stato verso di rimetterti dietro le mie palpebre. È quasi strano che non si siano piagate anche loro da questo desiderio; il desiderio corrode qualsiasi tessuto e io volevo solo rivederti.

Mi sto sollevando. Il soffitto è sempre più vicino – mi sto sollevando. È un movimento troppo veloce, non sono più abituato, ma non sono io a muovermi. Sento la parte inferiore del mio corpo che è diventato il lenzuolo lacerarsi e rimanere indietro, mentre con un cigolio il tessuto che ho dentro si spacca si smidolla e diventa fuori, cola tinge brulica esoscheletro di un colore che non posso vedere perché è dietro di me ma deve essere rosso, deve per forza essere rosso perché mi hanno insegnato che dentro sono fatto di rosso e di bianco, mi sollevo ancora ma non sono io a muovermi, è la stanza in alto che diventa sempre più vicina – oh come è bello quando tutte le cose sono vicine – e ancora ascendo verso il finestrino e le grate dove si affollano bestemmie, puzza di fritto, sirene della strada, ragni e falene che riesco a toccare allungando la mano, il mio corpo che non deve più chiedere e soffrire del non essere toccato perché ci viene letteralmente portato, a toccare! a toccare tutto, portato dalle sue ossa, e mi finisce la faccia sul soffitto ma le ossa, così libere attraverso le mie piaghe sulla schiena di fuoriuscire e prendere possesso della stanza, mi spingono sempre più su, spingono spingono finché il mio peso levitante e supino non disvelle una, due, tre grate dell’unico buco di finestra della mia topaia di casa – o come mi rendo conto di quanto è invivibile quella stanza, quella situazione, quel letto ora che non le vedo più ma soltanto le percepisco dietro di me – e torcendomi steso di lato e ascendente finisco di fuori, ancora salgo sollevato dal mio dentro fuorato, il mio dentro forato che non ha più desideri perché tutto il suo desiderio l’ha riversato in questo, nel farsi forare e piagare da tutto ciò che voleva e che non l’ha voluto – volevo te che mi sei apparsa in sogno, e volevo te, città, volevo te, giorno, e volevo te, strada, e luce e acqua e volevo anche un cazzo di lavoro, volevo te, esistenza, volevo essere voluto e non soltanto convoluto e ora salgo e salgo, su sopra le terrazze, le scapole rampicano e si avviluppano come un piedistallo, un’altezza, un altare che finalmente mi toglie dall’aria pesante dei piani bassi dove pieghe miserabili impediscono il respiro, la mia spina dorsale intrecciata nel salire diventa presa d’aria del cielo mentre sale, sale, sale, mi vedranno da giù in città, mi vedranno incagliarmi nelle antenne, mi vedranno disteso e altissimo sulle terrazze grondare interiora, mi vedranno che le ossa ormai tutte uscite dalle piaghe ora si incuneano, diventano un corpo a sè stante un ragno gigante un perfetto statuario intricato una rete di avorio un bellissimo corpo che non sono più io e mentre l’eterna bellezza di ciò che non mi vuole si calcifica quel che resta di me precipita flaccido nella massa di altri corpi disossati incrostati tra loro che compongono le ossa di questa città rossa.

 

 


Francesca Stefanelli (@icono_klassy), nata in Salento dove gli alberi sono alti quanto i cristiani, sta per laurearsi in lingue e letterature straniere con una tesi in linguistica computazionale e AI che copiano Isaak Babel’; traduce dal russo poesia transfemminista, giornalismo dissidente (ha cotradotto per Einaudi La mia Russia di Elena Kostjucenko) e per campare anche seminari di sciamanesimo web. Vive a Napoli, dove sogna di occupare Posillipo perchè il mare è libero e di tutt*. Spera di poter tornare in Siberia un giorno per ritrovarla libera.


 


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