Storia di un nome

Più attuale che mai nella situazione odierna in Italia, il romanzo Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood (1985) è una distopia che investe violentemente i corpi delle donne, diventati contenitori di ideologie e plasmati in base a necessità, desideri e paure degli uomini. Il mondo in cui è ambientato il romanzo è totalitario e neopuritano, una dittatura fondata sul malsano fondamentalismo cristiano dove le Ancelle sono schiave fertili, stuprate ogni mese dagli uomini che le posseggono. Le Ancelle non hanno nomi, ma sono complementi di possesso, senza volontà e identità. C’è una forte e diretta connessione con il linguaggio e l’abuso: le Ancelle non possono parlare se non in maniera meccanica come in 1984 di Orwell. Il romanzo di Atwood è poi diventato una serie tv che dal 2017 ci mostra la storia di OfFred, interpretata da Elisabeth Moss. In una scena potente e iconica, nel settimo episodio della seconda stagione, le Ancelle si trovano nel supermercato e si sussurrano l’un l’altra il proprio nome. È un piccolo gesto di Resistenza che mostra drammaticamente l’importanza dei nomi e delle identità. Vedendola ne uscirete incazzatə e pienə di voglia di spaccare tutto, una rabbia sana che forse può essere utile in questi tempi politici. Questo momento narrativo che ancora mi infuoca il petto, mi ha fatto pensare a come vorrei presentarmi. Piacere, mi chiamo:

Silvia: nome classico se sei nata come me negli anni 90. Eravamo in tre, io insieme a Giulia e Valentina. Forse i tre nomi più comuni per quegli anni. Ma sono del ’94 e chiamarsi Silvia era più una premonizione (o una maledizione per quello che  sarebbe accaduto in Italia), che un luogo comune.

Di Gregorio: cognome del Sud Italia, siciliano. I miei nonni sono andati via da Pietraperzia,  in provincia di Enna perché “non visti di buon occhio” dalla mafia, emigrando così al Nord  Italia, al confine con la “Isvizzera”. Erano talmente in opposizione a quello che lasciavano  nella terra arida sicula che hanno chiamato il loro figlio Vladimiro, come Lenin.

E questo è tutto quello che non mi sono scelta io. Ma fortunatamente ci sono eccezioni a queste regole imposte, eccezioni che possono essere prese d’esempio da tuttə. Nell’ambiente queer la pratica di scelta, dalla famiglia al nome, in un approccio generale di autodeterminazione, è una cosa bellissima, libera e ricca di pop culture, letteratura e storie familiari. Si naviga in mondi meravigliosi. E così è nato il mio nome:

Clo: Torquato Tasso fu il mio Wikihow. A 11 anni avevo già capito che la storia della  letteratura italiana fosse tossica, (il Post ci è arrivato qualche mese fa) e quando la  professoressa ha illustrato il personaggio di Clorinda con la sua storia con Tancredi, in  questo femminicidio inconsapevole nella Gerusalemme Liberata, ecco, io ho sbuffato. Così  ho riscritto nella mia testa la storia: mi facevo chiamare Clo ma invece di morire in duello perché lui ammazza lei non riconoscendola sotto l’armatura, io sopravvivevo. Non valeva  per Tancredi la frase Lo riconoscerei anche solo dal tocco, dal profumo; lo riconoscerei anche se fossi cieco, dal modo in cui respira, da come i suoi piedi sferzano la terra (La canzone di Achille, Madeline Miller). Il mio Clo era un personaggio ribelle, una guerriera forte ‒ mi domando quanta Xena ci fosse dentro questa storia ‒ ma soprattutto rifiutava il battesimo di Tancredi rimanendo fedele a sé stessa. Dalle medie quindi, il mio nome è rimasto Clo, invariato. E quando su MSN spesso non sapevano se fossi maschio o femmina, invece della paura di creare un catfish, mi dava molta gioia ‒ numerosi  trilli di gioia. Mi piaceva l’idea di essere molteplice, al di fuori.

Come anticipavo, Wikihow può aiutare nella ricerca del nuovo nome non-binario, ma anche PianetaMamma.it non scherza. Suggerisce infatti 5 nomi italiani non binari (qui descritti come UNISEX, per un ritorno alle taglie degli anni ’80) come: Celeste, Andrea,  Diamante, Fiore e Felice, con casi più unici che rari. Continuando a parlare di nomi scelti, si comprende già dai primissimi minuti del documentario Orlando. My Political Biography per la regia di Paul B. Preciado quanto la questione del nome sia centrale. «Orlando è il nome che uno dei miei amici voleva che prendessi quando ho iniziato la transizione, ma non mi sembrava adeguato, forse per l’ispirazione aristocratica del personaggio. Non c’era niente di più lontano dalla storia del figlio di un proprietario di un garage e una sarta, cresciuto in una città sperduta nel Nord della Spagna. Per questo mi sono chiamato Paul. Una transizione di genere è un viaggio trasformativo, non una mera riproduzione di identità».
E in questo viaggio trasformativo non potevo che chiedere ai miei amici trans*, ispirata da Preciado, Pianeta Mamma e a un articolo bellissimo di TeenVogue, di presentarsi e di raccontare da cosa derivasse la loro scelta del nome, per conoscere, dare spazio e immergersi in nuovi mondi trasformativi:

Elia Nobili: alle superiori mi chiamavano Ale per  via di un video virale di un vecchietto che urla “alesbica” su un autobus che insultava una  ragazza. Agli occhi della società ai tempi ero una ragazza lesbica e per questo i miei  compagni di classe hanno iniziato a chiamarmi così. Io ho sfruttato questo soprannome molto tranquillamente ma ai miei genitori non piaceva per il simbolo che rappresentava e anche io sapevo che era come rimanere attaccato a un passato che mi faceva male. Ho optato per Elia che è un nome che quando sentivo mi dicevo: ci chiamerei un figlio. E poi mi sono  detto, perché chiamarci un figlio quando non so neppure se, per la situazione in cui sono ora, lo potrò mai avere? E allora mi ci chiamo io.

Diego Piemontese: da piccolo avevo problemi di Ego e una mia amica mi ha detto, hai un Ego così grande che dovrebbe avere un nome tutto suo e così è stato Diego. Potete ascoltare una puntata del podcast di Diego che tratta proprio del suo nome, a  proposito di Ego!

Rac Montoro: per me è stata dura perché ho sempre pensato di mantenere il mio nome  all’anagrafe che finisce con la E e da piccolo, per questo, i bambini mi hanno sempre preso  in giro, pensando che non fosse un nome da femmina. E anche io l’ho sempre vissuto come un nome maschile. Ma da quando è mancata mia nonna, che porta il mio stesso nome, ho pensato che la soluzione l’avessi in tasca. Tutti mi avevano sempre chiamato Rac e questa  scelta mi ha permesso di sentirmi molto più libero, anche se non è riconosciuto come nome maschile, mi protegge, mi sento al sicuro come sotto a un ombrello.

Samuele Galli: da adolescente sembrava figo scegliere un nome che i miei genitori non mi  avrebbero mai dato, un nome americano, come Brian, o avere un nome di un eroe di una  qualche serie tv. Ma durante una conversazione mia mamma mi ha raccontato che se fossi  nato biologicamente maschio mi sarei dovuto chiamare Samuele e in quel momento ho  capito che quello era il mio nome, il nome giusto per mePotete ascoltare il TedX  di Sam che tratta proprio della transizione e rappresentazione dei media!

Giove: ho scelto Giove perché sono nato di giovedì, perché il pianeta del mio segno zodiacale è  Giove e perché, dato che i miei non hanno voluto sapere il sesso del nascituro fino alla nascita, Giovanni era l’altra opzione e Giove lo richiama.

Le diverse culture considerano le pratiche di attribuzione dei nomi in modo diverso e  conferiscono a questo atto un valore altrettanto diverso. Ma se te lo attribuisci tu, questo  valore, a mio parere schizza verso l’infinito. Ci sono realtà dove si cambia nome addirittura più volte nella vita: è una pratica che può accadere ai membri della tribù Piraha in Amazzonia, che credono che gli spiriti si impadroniscano regolarmente di loro e cambino intrinsecamente ciò che sono, così cambiano ogni volta il loro nome. E quando lo assumono, questo corrisponderà al periodo successivo della loro vita, rappresentando quindi una nuova fase dell’essere. Incredibilmente catartico, trasformativo e forse necessario anche per noi? Così smetteremmo di dividere i nostri periodi solo in base agli ex, ai tagli dei capelli, agli album di Lorde.

Un altro fenomeno interessante è quello del cambio di nome in Sudafrica: molti parlanti di lingue come il Tswana e lo Zulu scelgono e cambiano i propri nomi in nomi inglesi, correlati spesso a cambiamenti estetici. Le motivazioni sono molteplici, complesse e intrinseche nella storia coloniale e post-apartheid del Sudafrica. Ma, in generale, si è osservato un allontanamento dalle pratiche di denominazione tradizionali africane, con una crescente preferenza per la moda  e l’originalità nella scelta di nuovi nomi come espressione di individualità e portatori di significato ‒ come potete leggere qui sotto. Non paiono però esserci nomi non binari.

 

Sitografia

https://www.liberation.fr/debats/2018/02/23/appelle-moi-par-mon-autre-nom_1631959/  https://www.internazionale.it/opinione/paul-preciado/2018/03/08/nome-identita   https://www.teenvogue.com/story/how-transgender-people-choose-their-names   https://journals.co.za/doi/pdf/10.10520/EJC123742

https://www.pianetamamma.it/nomi/nomi-unisex-per-bambini.html

https://www.wikihow.com/Choose-a-Nonbinary-Name#:~:text=1%20Use%20a%20name%20generator,pays%20tribute%20to%20your%20%20culture

https://www.ilpost.it/2024/01/20/storia-tossica-della-letteratura-italiana/  https://www.theglobeandmail.com/technology/science/life-without-numbers-in-a-unique-amazon-tribe/article18270803

https://brightside.me/articles/why-the-piraha-people-live-in-the-moment-and-are-considered-the-happiest-in-the-world-799555/

https://www.reddit.com/r/Anthropology/comments/6yrwh8/is_there_any_culture_where_people_pick_their_own/

https://www.degruyter.com/document/doi/10.1515/ijsl.2004.2004.170.59/html 

https://open.spotify.com/episode/2neqqfyBOIX0fG3sQcx8QN?si=uDW6qeXASI6HtrIDqwy1_g https://www.youtube.com/watch?v=jYm2oWE5gEU&t=418s&ab_channel=TEDxTalks

Immagini:

Immagine di copertina: frame tratto da The Handmaid’s Tale, 2017-2025, HULU

 

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Silvia Clo Di Gregorio lavora come regista, autrice e artista, con storie e opere che si concentrano sulla rappresentazione queer; ha scritto e co-ideato Love Club (Prime Video Italia), la prima serie tv italiana sviluppata e interpretata dalla comunità LGBTQIA+, candidata come miglior serie italiana ai Diversity Awards 2024. Il suo corto Pollo all’Ananas ’98, commedia grottesca che sfida gli stereotipi interrazziali, finanziato da Torino Piemonte Film Commission e Ministero italiano della Cultura sarà in tour in estate 2024 in USA e Canada. Scrive di rappresentazione queer nei media, nel cinema e negli immaginari culturali.

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