Articolo di Molly M. Pearson
Traduzione di Rachele Cinerari
La versione originale di questo testo è stata pubblicata da Catapult qui.
Sono uscita dal lockdown pandemico più pesante di quanto fossi mai stata. Raggiunti i 120kg, il mio peso è considerevole rispetto al mio metro e cinquanta di altezza. Sapevo di aver raggiunto il mio peso massimo molto prima di salire sulla bilancia nello studio del mio medico per la prima volta dopo anni, verso la fine del 2020. Delle nuove smagliature viola erano apparse sulla mia pancia mesi prima, a segnalare che era accaduto l’inevitabile: dopo aver perso 36kg tra i 20 e i 30 anni, a 35 li avevo ripresi tutti, guadagnandone altri 18. Sapevo che sarebbe successo: numerose ricerche mostrano che, dopo una perdita di peso considerevole, le persone lo riprendono e ne accumulano altro.
Inizialmente avevo perso peso per circostanze casuali. Quando ero all’università, la linea di autobus che mi portava dal campus in periferia verso il lavoro in centro venne tagliata, quindi non ebbi altra scelta che introdurre una bicicletta nei miei spostamenti quotidiani. Più pedalavo, più diventava facile farlo. Presto spostarsi in bici divenne considerevolmente più veloce che usare i mezzi pubblici inaffidabili e sottofinanziati della mia città. Nei giorni in cui andavo sia a lezione che al lavoro, cioè il più delle volte, pedalavo dai 40 ai 60km al giorno. Cominciai ad amare la sensazione del sole e del vento sulla mia pelle e quell’inedito senso di indipendenza; in quanto giovane della classe lavoratrice non avevo mai posseduto un mezzo di trasporto in quella zona così dipendente dalle auto che è il Midwest. Senza che me ne rendessi conto, senza che lo avessi programmato, il peso cominciò a sciogliermisi di dosso.
Non ci potevo credere. Per tutta la vita mi ero impegnata molto per accettare il semplice fatto di avere un corpo grasso. Non solo ero convint* di essere fisicamente incapace di perdere peso – credetemi, ci avevo provato molte volte – ma avevo raggiunto un punto in cui, per la prima volta nella mia vita, non volevo perderne. Alle superiori e all’università, nei primi anni 2000, leggevo con trasporto blog all’avanguardia rispetto alla grassezza, come Feministing e il noto Shapely Prose di Kate Harding. A margine dei miei studi di genere facevo letture illuminanti su che cosa significa vivere in un corpo grasso femminilizzato e di come la grassofobia getti le sue radici nel suprematismo bianco patriarcale. Cominciai a indirizzare il mio sguardo e le mie azioni verso un mondo in cui tutti i corpi grassi potessero essere liberi, incluso il mio.
Eppure niente di questo lavoro personale e introspettivo cambia ciò che chiunque abbia perso e poi ripreso peso può raccontarvi: le persone e il sistema vi trattano diversamente in base alla misura del vostro corpo, in modo reale e concreto. La differenza è allo stesso tempo allettante e dolorosa.
Una volta iniziato a perdere peso, il mio mondo ne fu trasformato. Improvvisamente avevo più opzioni di abbigliamento di quanto avrei mai potuto immaginare. Le sedie con i braccioli non mi lasciavano più i segni sui fianchi. Perfett* sconosciut* mi chiedevano di uscire alla luce del sole, tutt’altra cosa rispetto agli incontri e alle scopate occasionali a cui ero abituata, che erano spesso piene di alcool e di frequente avvenivano in modo clandestino. Quando iniziai l’università era ormai diventato abbastanza facile trovare una persona per scopare, ma quasi nessun* voleva essere vist* mostrare attenzioni a una grassottella in pubblico. Perdere peso cambiò tutto questo.
Persone amiche, collegh* e compagn* di classe erano meravigliat* dal mio corpo in cambiamento. Divenne normale per le persone nella mia cerchia dirmi cose come “Ma guardati!” o “Pari davvero… boh, in salute ultimamente.”
Le visite dal medico non solo divennero meno stressanti, ma alimentavano anche la mia tendenza a essere perfezionista e a compiacere le persone. Sia l’infermier* di turno che l* medic* mi riempivano di complimenti quando scoprivano che il mio peso era diminuito drasticamente. Mi dicevano: «Qualunque cosa tu stia facendo, continua così».
Quello che stavo facendo, però, presto non fu più sostenibile, né sano. Una volta iniziato a perdere peso senza volerlo, la differenza nel modo in cui venivo trattata mi stimolava tanto quanto mi faceva infuriare. Divenni segretamente ossessionata dall’esercizio fisico; oltre a pedalare ogni giorno, cominciai ad andare in palestra due volte al giorno, una prima del lavoro e una dopo. A volte, dopo essere tornata a casa in bici dal secondo allenamento in palestra, andavo a correre vicino a casa. Quando la perdita di peso si stabilizzò, andai nel panico. Cominciai a limitare ciò che mangiavo. Mi esercitai a dare i morsi più piccoli che potevo più lentamente possibile. Mi dicevo che stavo praticando il “mindful eating”.
Alla fine il mio regime diventò impossibile da mantenere. Mi feci male ripetutamente e feci diversi cicli di fisioterapia. Verso le 18-19 ero completamente esausta e raramente avevo il tempo o le energie per vedere le persone amiche. I miei capelli, già sottili e fini, divennero fragili e paglierini. Anche se non riesco a individuare un momento specifico, alla fine lo capii: la grassofobia mi aveva inghiottito completamente. Pensai ai miei genitori e a quanto sarebbero stati tristi nel vedermi trattare me stessa in questo modo.

*
Mia madre era grassa. Molto grassa. Era intransigente nel suo femminismo e non scendeva a compromessi sulla sua autonomia corporea. Era quasi sempre la persona più grassa nella piscina del quartiere e attraversava la piscina scivolando serenamente sull’acqua in mutande e prendisole, senza alcuna intenzione di contenere la sua massa con l’elastan. Adoravo tornare a casa dopo una lunga giornata passata in piscina con lei, ubriaca di cloro e crema solare. Mi stendevo supina in mezzo alle sue gambe, con la testa appoggiata sulla sua pancia, sentendo il mio corpo alzarsi e abbassarsi seguendo il ritmo del suo respiro mentre mi accarezzava i capelli bagnati, con una videocassetta de L’ultimo unicorno o di Sesamo apriti in sottofondo mentre mi assopivo.
Il mio padre biologico era bisessuale, e lui e mia madre avevano una relazione aperta. Pur essendo alto e molto magro, andava a letto con persone di tutti i tipi. Era molto attivo nella scena leather e kinky perlopiù gay. Morì quando avevo due anni e mia mamma morì quando ne avevo sette, quindi non posso chiedere loro come gestissero la relazione, ma so che lui amava le donne grasse e amava scopare con mia mamma. Da ricordi confusi e storie di seconda mano che sono state condivise con me nel corso del tempo, ho la sensazione che mia mamma – che si definiva “una lesbica eterosessuale”, prima che ci si riappropriasse a pieno della parola queer – avesse vinto la lotteria sessuale da donna grassa etero: un uomo che amava scopare con lei così com’era e non temeva che si sapesse in giro.
Poi c’era Paul, la terza persona adulta nella mia famiglia. Paul era apertamente gay e sposato civilmente con mia madre, e ha continuato a crescermi dopo che mia madre e mio padre erano morti. Per quanto non fosse grasso come mia madre, aveva una vistosa pancia che sporgeva sopra i pantaloni. Era attore, regista, drag queen ed ex-ballerino, e si muoveva in maniera sicura e precisa, con la sua pancia che apriva la pista.
Per tutta la mia vita Paul è stato grasso, ma prima che nascessi era molto magro e agile. Per essere desiderato nella scena gay si privava del cibo come se fosse un dovere. Quando, nel 1990, la crisi dell’AIDS scoppiò in mancanza di una adeguata azione sistemica, decise di non avere più relazioni e, di conseguenza, si permise di tornare a essere grasso.
Da adolescente, durante le cene al nostro ristorante cinese preferito, mi intratteneva con storie sulle sue avventure nelle saune gay, sulla prima volta che aveva ricevuto rimming, sul sesso focosissimo che faceva nei retrobottega dei bar kinky e di come tutto era iniziato dopo aver raggiunto i 70kg. Nella sua vita la grassofobia non era qualcosa di cui lamentarsi, era semplicemente un fatto. Una volta gli chiesi se avesse mai provato rancore per il fatto di dover essere così rigido nella sua dieta per avere la vita sessuale che voleva avere. Senza pensarci due volte, disse: «No, mai. E lo rifarei.» Conosceva il prezzo d’ingresso e lo pagava volentieri.
Per quanto riguarda l’essere vist* e desiderat*, in Paul ho visto un prezzo da pagare e una scelta da fare. In mia madre ho visto una fortunata vincitrice della lotteria. Eppure nessun* di loro si è accontentat* di stare alle transenne all’ingresso. Da entrambi, e dalla comunità di amici strambi di cui ci circondavamo, ho imparato il potere della creazione di un immaginario grasso.
A casa nostra facevamo ciò che ci faceva stare bene e mangiavamo ciò che ci piaceva: ero impoterata e incoraggiata a fidarmi della mia fame e dei miei desideri. Sia prima che dopo la morte dei miei genitori biologici, Paul è sempre stato trasparente sulle sue passate restrizioni alimentari. Diceva chiaramente che si trattava di un compromesso che aveva scelto di accettare e non incolpava nessuno per aver fatto delle scelte nel perseguimento del piacere. Avendo avuto una relazione con mia madre prima di dichiararsi gay, ha esplicitato che la riteneva bella e forte. Ogni volta che i miei insegnanti chiamavano a casa per parlare di come mi prendevano in giro per il mio peso, il giorno dopo si presentava a scuola con una lista di genitori da rintracciare e a cui fare un discorsetto.
Pur essendo trasparente con me riguardo agli sforzi che aveva dovuto fare per perdere peso e mantenersi più magro, mi forniva un modello per crescere come persona grassa, e goderne. Nelle sue produzioni teatrali faceva abitualmente scelte di casting che ritraevano le persone grasse come protagoniste e come persone desiderabili romanticamente. Nei suoi spettacoli di drag faceva liberamente numeri sexy, sfrontati e seducenti, mostrandomi che potevo essere una femme grassa e un essere sessuale allo stesso tempo. Aveva addirittura dei cavalli di battaglia che celebravano esplicitamente il grasso e il piacere, come l’inno drag Bigger is better di John Treacey Egan e Two Hundred Pounds of Fun di Candye Kane. In mancanza di mia madre e dell’uomo che amava il suo corpo grasso, Paul è riuscito a essere schietto riguardo al privilegio legato alla magrezza. Eppure mi ha mostrato allo stesso tempo come costruire un mondo in cui le persone grasse non debbano essere fortunate – o pagare un prezzo – per essere desiderate.
La mia vita domestica grassa e queer era in netto contrasto rispetto alla mia esperienza nel resto del mondo. Non solo ero grassa, ma mi sentivo come un’aliena che cercava di dare un senso alla politica di genere nel cortile della scuola. Ero il bersaglio perfetto per i bulli e, man mano che crescevo e diventavo adolescente, il bullismo diventava spesso sessualizzato.
Un’estate, quando avevo più o meno dodici anni, un gruppo di ragazzi mi si avvicinò alla pista di pattinaggio insistendo sul fatto che il loro amico voleva pattinare con me. Abbassai lo sguardo, dissi rapidamente «No, grazie» e mi allontanai pattinando frettolosamente. Il confine tra la sicurezza del mio contesto familiare e la crudeltà del mondo esterno mi era chiaro, ma c’è stato un momento in cui ho trovato il coraggio di credere che forse, e dico forse, questo fosse il mio biglietto vincente della lotteria per essere vista e desiderata. Dopo settimane di «No, grazie» imbarazzati, accettai la loro offerta. Quando il gruppo di ragazzi mi condusse dal loro ignaro amico e gli disse che volevo pattinare con lui, i suoi occhi si spalancarono e lui indietreggiò. «Bleah, andate a fanculo!», gridò mentre si allontanava rapidamente da me. I suoi amici, che per tutta l’estate avevano fatto di tutto perché arrivasse questo momento, scoppiarono a ridere e a grugnire.
Mentre trattenevo le lacrime con un nodo alla gola, mi chiedevo come avessero fatto mia madre e mio padre a trovarsi. Compresi anche più profondamente che mai perché c’era stato un momento nella vita di Paul in cui la sua fame di essere desiderato aveva soppiantato i crampi della fame che sopportava.
A un certo punto, i miei compagni a scuola erano cresciuti abbastanza da smettere di prendermi di mira per il mio corpo. Al suo posto, l’esclusione passiva divenne la norma. Le gite al centro commerciale con gli amici erano imbarazzanti; passavo questi momenti a cercare accessori mentre gli amici passavano la giornata a provare vestiti nei quali io non entravo. Il sabato pomeriggio trascorrevo ore nelle camere delle persone amiche, ascoltando educatamente i loro drammi preadolescenziali, desiderando tantissimo di avere dei drammi ormonali tutti miei.
Con il liceo è arrivato il mio debutto sessuale, seguito da un sacco di scopate con chiunque ci provasse perché mi consideravo fortunata ogni volta che qualcuno voleva venire a letto con me. Il sesso era diventato facile da fare, ma il sesso con le persone con cui volevo fare sesso era raro. Volevo essere grassa e spensierata come mia madre e avere la possibilità e capacità di scelta sperimentate da Paul e mio padre. Diventando adulta, desideravo disperatamente la creatività e l’immaginario grasso che avevano coltivato per me a casa. Mi avevano mostrato che era possibile, ma non ero in grado di trovarlo da sola.

*
Mentre torno ancora una volta nel mondo come persona grassa, c’è più rappresentazione mainstream dei corpi grassi di quanto avrei mai potuto immaginare. Lizzo e Aidy Bryant sono nomi familiari, è più facile che mai fare acquisti e trovare abiti che non solo vadano bene, ma che siano anche belli ed etici, influencer grasse di Instagram compaiono nel mio feed senza che io le cerchi. Il grasso è, oserei dire, alla moda.
Ho anche raggiunto quell’apice di perfezione che pensavo fosse impossibile: ho iniziato a uscire con il mio compagno, con cui sto da tredici anni, poco prima di perdere peso, e lui ha messo in chiaro che in tutto il suo stringersi e allargarsi il mio corpo è visto, desiderato e apprezzato. Con lui vivo contemporaneamente il mio corpo grasso, la mia libertà, la mia possibilità di scelta e di sperimentazione in ambito sessuale. Tale madre, tale figlia: ho vinto anch’io la mia lotteria da donna grassa.
Nonostante abbia trovato un partner che ama e desidera il mio corpo in tutte le sue forme, e nonostante una nuova era di rappresentazione grassa, continuo a sperimentare la stessa esclusione passiva che provavo quando avevo 12 anni. Da quando ho ripreso peso, gli sconosciuti non mi chiedono più di uscire. Negli spazi pubblici, le persone guardano oltre o non mi vedono nemmeno, proprio come un tempo. Le persone della mia cerchia, alcune delle quali non vedo da più di due anni a causa del Covid-19, non se ne escono più con «Ma guardati!» come facevano quando le vedevo regolarmente, ma avevo perso peso. Sto in piedi per 10, 15 minuti al bancone, con i soldi in mano e pronta per ordinare un drink, mentre donne magre e slanciate compaiono da dietro di me e vengono servite per prime. Ho vinto un premio a un recente evento pubblico, durante il quale sono certa mi abbiano fatto una foto, per poi scoprire che non era stata inserita nel post Instagram del giorno dopo.
Mi chiedo se sia la stessa cosa che ha provato Paul alla sua prima visita al bar gay prima di rendersi conto di quanto gli sarebbe costato voler essere visto, desiderato e incluso. Mi chiedo anche, se mia madre fosse vissuta più a lungo, se sarei stata più al corrente dell’esclusione passiva che sicuramente affrontava ogni giorno.
Il desiderio non riguarda solo il sesso. Riguarda chi desideriamo avere intorno e con chi scegliamo di condividere lo spazio. Riguarda con chi siamo dispost* a fare due chiacchiere in fila alla cassa. Riguarda il contatto visivo. Riguarda a chi dedichiamo la nostra attenzione. Desiderare significa dire alle persone amiche che sono sexy, non per giudicare il loro corpo, ma per mostrare che capiamo quando si sentono bene nel loro corpo. Significa apprezzare le persone a prescindere dal fatto che vogliamo scopare con loro. E benché il desiderio non riguardi solo il sesso, è importante interrogare i nostri desideri sessuali e come si traducono nei modi in cui trattiamo le persone. Questi piccoli atti di inclusione sociale – di vedersi, di desiderarsi, in comunità – contano. Scrittor*, artist* e pensator* come Aubrey Gordon, Da’Shaun L. Harrison, Shoog McDaniel, Sonalee Rashatwar, e molt* altr* ci dicono che il desiderio, anche la semplice volontà, di stare in comunità con persone grasse influisce su chi vive, chi muore, chi viene credut*, chi viene apprezzat* e chi riesce a vivere una vita degna di essere vissuta.
Per molt* di noi, i media, gli algoritmi e le aziende di abbigliamento hanno creato l’illusione che il prezzo che le persone grasse devono pagare per essere desiderate sia stato azzerato. Ma in realtà, se c’è stato un cambiamento, il prezzo da pagare non è stato azzerato, è stato semplicemente normalizzato. Celebrità grasse come Lizzo e Aidy Bryant si assumono la responsabilità implicita di creare contenuti incentrati sui loro corpi e sulla grassofobia che affrontano. Le aziende di abbigliamento “inclusive” creano un miraggio di liberazione attraverso il potere d’acquisto, mentre gli influencer dei social media rendono quel miraggio patinato e banale. Spero che un giorno l’illusione diventi realtà e che la nostra cultura, i nostri sistemi e il modo in cui ci trattiamo reciprocamente facciano sentire le persone grasse viste e desiderate al di là dei contentini che il capitalismo ci concede. Nel frattempo, ho bisogno di creare un mondo grasso ora, così come ne ho sempre avuto. Ho bisogno di potermi fidare di essere visto e desiderata dalle persone con cui sono in comunità. Ho bisogno di sentirmi al sicuro come una volta, appisolata sulla pancia di mia madre, aspettando che Paul torni a casa con pollo fritto e biscotti per cena.

Molly M. Pearson (tutti i pronomi) è una scrittrice, educator* e organizzatore di St. Louis, Missouri. Il suo lavoro esplora il sesso, l’identità, l’invecchiamento, la malattia, la comunità e i rischi che corriamo per sopravvivere e rendere la vita degna di essere vissuta. Altri suoi scritti si trovano su TheBody, Out in STL, The New Territory Magazine e altrove. Implora tutt* noi di ascoltare i nostri anziani. Instagram/Twitter: @MollyMPearson.
Rachele Cinerari è dottoranda in Critica Letteraria e Letterature Comparate e collabora come editor di saggistica con case editrici indipendenti. Si interessa prevalentemente di letteratura tedesca e francese di inizio Novecento, rapporti tra letteratura e conoscenza, letteratura come spazio e strumento di sovversione delle norme.
Immagine di copertina: Aidy Bryant nella parte di Annie e Lolly Adefope nella parte di Fran nella serie Shrill. Tutti i diritti riservati a Hulu.
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